La scuola italiana sperimenta i tutor di intelligenza artificiale (ma vieta gli smartphone)

C’è una domanda che mi è capitato di fare quando ho incontrato studenti o studentesse di liceo negli ultimi due anni. “Ma lo usi ChatGPT per fare i compiti?”. Sì, mi hanno risposto nella maggior parte dei casi. Non solo per scrivere temi, ma anche per chiedere spiegazioni a concetti difficili o come un semplice assistente per offrire consigli di studio. Secondo una ricerca condotta da TGM Research per conto di NoPlagio.it, in effetti, l’AI a scuola è ormai una realtà. Del campione di poco più di mille studenti intervistati, il 65% la usa per compiti e saggi, il 71% cerca informazioni, il 60% la usa per svolgere compiti, il 33% per imparare, il 18% per rispondere a test, il 21% come assistente personale e il 13% specificamente per scrivere saggi.

Nell’anno del divieto agli smartphone nelle scuole elementari e medie, sarà proprio l’intelligenza artificiale una delle principali novità del nuovo anno scolastico. Il ministro dell’Istruzione Valditara ha infatti annunciato una sperimentazione che interesserà quattro regioni, per un totale di 15 classi, tra medie e superiori. L’idea è utilizzare l’AI come una sorta di tutor, in grado di aiutare gli studenti e le studentesse a partire dallo storico dei compiti in classe e delle verifiche.

La sperimentazione durerà due anni e ha l’obiettivo proprio di capire se l’intelligenza artificiale può rappresentare uno strumento efficace a scuola. Da un punto di vista tecnico, prevede l’utilizzo di un software su Google Workspace. Al centro, almeno all’inizio, ci saranno le materie STEM: quelle scientifiche, per intenderci. In concreto, il sistema dovrebbe essere in grado di individuare le lacune degli studenti, avvertire il docente e proporre spiegazioni ed esercizi personalizzati.

Come funzionano i tutor basati su AI

Quello dei tutor basati su intelligenza artificiale è uno dei campi di applicazione più discussi di questa nuova ondata di AI generativa. Le premesse ci sono: l’idea di un assistente personalizzato che possa supportare i professori e gli studenti pare effettivamente promettente. Salman Khan, fondatore della non profit Khan Academy, ha previsto di recente un futuro in cui ogni studente possa avere un assistente personalizzato a disposizione.

Sul mercato, ce n’è già qualcuno. Ci sono tre applicazioni più note delle altre, disponibili anche sul mercato italiano. Si chiamano Question AI, Answer.AI e Gauth: permettono di fotografare i compiti per ricevere spiegazioni su misura. Sono tutte applicazioni di origini cinesi: conseguenza della stretta di Pechino sul settore ed-tech sui servizi di tutoraggio a scopo di lucro, che ha spinto le aziende verso l’internazionalizzazione. Negli Stati Uniti, c’è anche un prodotto di Google, che si chiama Socratic. Il funzionamento è più o meno lo stesso: si fa una domanda (anche solo fotografando un’operazione) e il sistema produce una risposta, spiegando passo dopo passo gli step necessari.

Quella italiana è una delle prime sperimentazioni sistematiche al mondo di questa tecnologia. In un articolo pubblicato sulla Harvard Gazette, viene raccontato uno studio condotto da Gregory Kestin e Kelly Miller su un corso di fisica a Harvard, in cui l’uso di un tutor AI ha superato l’efficacia dell’insegnamento tradizionale. Su un campione di 194 studenti, lo studio ha rivelato che coloro che hanno utilizzato il tutor AI hanno raddoppiato i progressi rispetto ai compagni seguiti da un docente in classe.

I rischi: dalle allucinazioni alla scomparsa della relazione

La verità, oggi, è che molte di queste esperienze sono principalmente aneddotiche. Non si conoscono gli effetti dell’uso dell’intelligenza artificiale nell’apprendimento. In uno degli articoli scientifici più citati sull’argomento, una review degli studi sul tema, si segnala che, secondo la letteratura scientifica l’AI per l’educazione può avere un effetto positivo. Tuttavia, al momento sembrano mancare riflessioni su aspetti pedagogici ed etici. Molti studi – dicono i ricercatori – si concentrano troppo su aspetti tecnici (come l’analisi dei dati e la costruzione di modelli predittivi) e trascurano il lato educativo, ovvero come queste tecnologie possono migliorare effettivamente l’insegnamento e l’apprendimento. In parole semplici: si sta lavorando tanto sulla tecnologia, ma poco su come utilizzarla in modo efficace per l’insegnamento.

Rimanendo sulla tecnologia, i tutor AI hanno anche dei rischi. In un articolo pubblicato sul New York Times, Ben Williamson, fellow al Centre for Research in Digital Education all’Università di Edimburgo, sottolinea come questi strumenti generativi possano persino avere effetti negativi o “degenerativi” sull’apprendimento degli studenti. “C’è una corsa a proclamare l’autorità e l’utilità di questi chatbot, ma le prove a sostegno di tali affermazioni non esistono ancora”, ha detto Williamson.

Il rischio principale è quello, piuttosto noto, delle cosiddette allucinazioni. Non conosciamo il funzionamento del sistema che il Ministero dell’Interno adotterà, ma la maggior parte dei tutor AI è costruito su sistemi del tutto simili a ChatGPT. Che, spesso, tende a inventare, a dare per certi fatti che certi non sono.

L’altro rischio è quello della sostituzione. Vero, il Ministero ha chiarito che si tratterà di un affiancamento. Ma cosa succede alla relazione tra studente e docente quando esiste un sistema che risponde h24, fornisce spiegazioni semplici e non chiede nulla di particolare in cambio? La questione, più culturale che altro, è che diventi tutta una questione di efficienza: che si possa, insomma, ottimizzare la relazione con gli insegnanti, renderla superflua.

Continua la lettura su: https://www.today.it/media/intelligenza-artificiale-scuola.html Autore del post: Today Fonte:

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“Chiamate chi ha il telefonino. Vi risponderà che risparmia tempo e denaro, che è migliorata la qualità del suo lavoro, che non soffre più di esaurimento nervoso per problemi di reperibilità. Insomma, vi comunicherà che è un vero investimento produttivo”. Questo nel 1994 era il testo della pubblicità italiana della Sip che cercava di far diventare mainstream un oggetto, fino a poco prima prerogativa di businessmen e yuppies di Wall Street. Erano passati dieci anni da quando il primo cellulare, il Motorola DynaTac 8000X inventato da Martin Cooper – noto come “il mattone” – era entrato nel mercato. Stava diventando un nuovo status symbol, ogni anno veniva limato un po’, diventava più sottile, fino a che negli anni 2000 lo slogan sembrava essere “piccolo è bello”. Poi una lunga trafila, tra Gsm, Sms, Snake, squilli, fotocamere, schermi a colori, acquisto delle suonerie alla moda in tv, Megan Gale che scala il grattacielo, la SummerCard, baby squillo che fanno sesso in cambio di una ricarica, Blackberry, i primi iPhone, negozi di cover nelle vie del centro, catene di Sant’Antonio su WhatsApp, meme, TikTok… ed eccoci al 2024. “Sempre con quel cellulare in mano”, dicevano le madri boomer che oggi indossano quelle collane-porta Samsung al collo, “stai lontano dallo schermo”, dicevano quelle stesse madri quando ci si avvicinava al tubo catodico, le stesse che oggi scrivono con un font 18 gli auguri di compleanno alle amiche invece di chiamarle, aggiungendoci uno Snoopy che abbraccia un cuore, condividendo la vignetta del Buongiornissimo caffè! a tutta la rubrica, indiscriminatamente. Il testo della Sip, vecchio di trent’anni, fa l’effetto delle musealizzate pubblicità delle sigarette in cui nove dottori su dieci consigliavano le Chesterfield rispetto a qualsiasi altra sigaretta, o dicevano: “Fumate! E’ la cura migliore per l’asma!”. Oggi, infatti, c’è chi vuole dare proprio agli smartphone la responsabilità del malessere della nostra società. 
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Jonathan Haidt in “The Anxious Generation” parte dall’aumento del 50 per cento di depressione e suicidi fra i giovani americani dal 2010 al 2019

   Proprio per l’influenza dello Smartphone in molti ambiti della vita quotidiana, ci sono infiniti studi sugli effetti di “melafonini” & co. sul nostro cervello. E soprattutto sul cervello di chi è nato quando i millennial già si erano stancati dei poke su Facebook. Jonathan Haidt sui nativi digitali, sui giovanissimi, ci ha scritto più di un libro, l’ultimo si chiama The Anxious Generation, subito diventato un bestseller. Haidt non è un Byung Chul Han qualsiasi, un tecnofobo che vuole uscire dalla cloud, ma è un intellettuale che ha anche scritto vari testi per analizzare la safety culture nei campus, il politicamente corretto e quanto il fenomeno della wokeness polarizzi la politica mondiale. Psicologo sociale che ha studiato a Yale, Haidt parte dai dati. Dice che la depressione e l’ansia negli Stati Uniti, piuttosto stabili negli anni 2000, sono aumentate dal 2010 al 2019 di oltre il 50 per cento. Il tasso di suicidi tra gli adolescenti è aumentato del 48 percento, per le ragazze dai 10 ai 14 anni addirittura del 131 per cento. Per gli studenti americani, negli ultimi dieci anni, c’è stato un declino cognitivo visibile negli studi governativi sui risultati scolastici, in particolare in materie come matematica e comprensione del testo. Nella maggior parte delle nazioni sviluppate quelli della Generazione Z, i nati dopo il ‘96, soffrono molto più degli altri di ansia, depressione, autolesionismo rispetto a qualsiasi altra generazione di cui si hanno i dati. Declino della salute mentale, solitudine, assenza di amici, hype del lifestyle degli hikikomori, quelli che riescono a vivere una vita intera senza mai uscire dalla cameretta, dove stanno tutto il giorno davanti a PlayStation e tv.  
      Haidt, appunto, non è un luddista, e in un’intervista dice che adorava il suo primo iPhone, comprato nel 2008. “Era incredibile, lo tiravo fuori se avevo bisogno di uno strumento. Se volevo andare dal punto A al punto B, c’era la funzione mappe, se volevo ascoltare la musica, ehi, ecco l’iPod. Era fantastico, e non era nocivo alla salute mentale”. Ma poi qualcosa è cambiato, “in rapida successione”, e l’iPhone “è passato dall’essere il nostro servo a diventare il nostro padrone, almeno per molte persone”. Tra il 2008 e il 2010 ci sono stati degli sviluppi che l’hanno trasformato in uno strumento del demonio: l’arrivo dell’App Store, le notifiche aggressive tramite le quali le aziende cercano di attirare costantemente la tua attenzione, la fotocamera frontale, e poi l’arrivo di Instagram, vera mela del serpente, il primo social media costruito esclusivamente per essere usato sullo smartphone. E così da coltellino svizzero diventa “uno strumento di distruzione di massa”. Dice Haidt che per gli adulti il problema è limitato, “possiamo gestirlo, così come abbiamo gestito la televisione”, ma per gli adolescenti di oggi la questione è diversa. Parla di ricablaggio dell’infanzia. E le femmine ne sono più vittima, i social e le dinamiche di attenzione dei device sfruttano di più le loro insicurezze. Haidt dice anche che bisogna differenziare bene tra smartphone (e social) e internet, perché “internet è meraviglioso”. Il professore propone un gioco: immagina un demone che ti appare davanti negli anni 90 e ti invita ad aprire tre scatole. Ne puoi aprire quante ne vuoi, ma ognuna di queste ti porterà via 15 ore della tua settimana. Apri la prima, è internet. Bene, utilissimo. Apri la seconda, sono i social. Meno utili. E poi apri la terza, ed ecco lo smartphone. “Sei contento di averle aperte tutte e tre? Ora hai 45 ore in meno nella tua settimana”. E la cara vecchia forza di volontà dove la mettiamo? Lo psicologo racconta di chiedere ai suoi studenti: “Preferiresti un mondo in cui TikTok non è mai stato inventato? La maggior parte dice di sì. Sono in trappola. E allora chiedo: perché non vi togliete da TikTok? E loro rispondono sempre nello stesso modo: non posso, perché ce l’hanno tutti”. 
    Haidt descrive uno scenario da Black Mirror dove i genitori oggi tendono a proteggere troppo i propri figli – paura della strada, dei cibi grassi, degli zuccheri, del linguaggio tossico, che si facciano male giocando – ma non si preoccupano per niente di proteggerli online. E non c’entra il cyberbullismo. Come ha detto Giuseppe Cruciani, “se non ti piace essere insultato, basta non leggere i commenti. Gli hater non esistono, hanno vita solo perché gli diamo importanza”. Secondo Haidt la formula per uscire da questa apocalisse zombie dei giovani è semplice: vietare gli smartphone nelle scuole, dare ai ragazzini più indipendenza, niente iPhone prima del liceo, niente social media prima dei 16 anni. E’ curioso che nel film appena uscito, e già campione di incassi, Inside Out 2, concentrato sull’arrivo di una nuova emozione, l’ansia, telefonini e social siano pressoché assenti dal plot e dalla vita delle ragazzine. 
   

Haidt dice che bisogna differenziare  tra smartphone (e social) e internet, perché “internet è meraviglioso”. Scenari da “Black Mirror”

   Anche le istituzioni si adattano, perché Haidt non è un pazzo con il cappello di carta stagnola che parla di “grande sostituzione”. Anche il sindaco di New York, Eric Adams, ha detto che i social sono tossici, che rappresentano “un pericolo per la salute pubblica”. L’Organizzazione per l’istruzione, la scienza e la cultura delle Nazioni Unite ha fatto uscire un report dopo aver analizzato 200 sistemi scolastici di tutto il mondo, e ha concluso che gli smartphone hanno un impatto negativo sul rendimento scolastico oltre che rendere i ragazzi più insicuri, soli e danneggiarli emotivamente. Meno di un paese su quattro non fa usare i cellulari in classe, tra cui Olanda, Svezia, Finlandia. 
   Il ministro italiano dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha promesso che vieterà i telefoni nelle scuole, misura che aveva provato a portare avanti anche il ministro Fioroni. Si parla del divieto in classe almeno alle medie e alle elementari a partire dal prossimo anno. L’unico rischio è che la lavagna elettronica venga usata per guardare i reel di TikTok, o che gli studenti trovino dei sotterfugi nascondendo il Samsung nell’astuccio, come si faceva una volta con gli appunti per i compiti in classe. Resterà “l’uso didattico del tablet”. E anche qui, come con le armi da fuoco, non è colpa dell’oggetto, ma di come lo usi. E ci sono poche cose più fastidiose di quei cartelli nei bar e ristoranti che dicono “no Wi-Fi, parlate tra di voi”. Fanno venire voglia di tirare fuori l’iPhone e mettersi a scrollare il feed finché non viene un crampo al pollice. 
    

Esistono delle minoranze che abbandonano lo smartphone tornando agli ormai vintage flip-phone (più 5 per cento di vendite nel 2022)

   Il mercato ovviamente si sta aggiornando, perché esistono delle minoranze di giovanissimi che abbandonano lo smartphone tornando agli ormai vintage flip-phone (aumento di vendite del 5 per cento nel 2022), come il Motorola Razr, o addirittura all’indistruttibile Nokia 3310. Solo chiamate, Sms senza emoji, al massimo Snake per passare il tempo in coda o sull’autobus. Esistono poi in vendita device minimalisti, come il LightPhone (solo messaggi, chiamate, calendario, sveglia e mappe), lo slogan è “un telefono per umani”. Oppure il Boring Phone, per “liberarsi dagli effetti negativi della tecnologia”, o il Punkt, che assomiglia a una calcolatrice. Ma molti tornano sui loro passi, perché si rendono conto che la vita quotidiana è più difficile, che la società ormai dà per scontato che tutti abbiano accesso a un internet istantaneo in tasca, e si lamentano che non riescono più a pagare il biglietto dell’autobus, o il parcheggio, o a leggere i menu presentati con il QR code. 
  

C’è l’opzione Neuralink, l’interfaccia cervello-computer, un chip impiantato nel cranio che libererebbe da qualsiasi device esterno

   Secondo gli insider della Silicon Valley e i vari osservatori dei fenomeni tecnologici, i miliardari della California hanno già accettato il fatto che gli smartphone saranno a breve obsoleti. Anche il ceo di Nokia dice che ormai quell’èra è finita. E sono già tutti alla ricerca della “next big thing” che li sostituirà. Google ci ha provato, e poi anche Meta e pure Apple, con gli occhialoni smart, ma non è andata benissimo. Troppo costosi, e troppo ingombranti. C’è chi pensa che l’intelligenza artificiale avrà un ruolo, un’integrazione con un device nuovo, magari wearable, cioè da indossare. Si parla di braccialetti e di spille, e alcune stanno già entrando nel mercato, che permettono di restare connessi usando la voce invece delle dita, o proiettando le cose sulle superfici davanti a noi, o creando ologrammi, chissà. Poi certo – altro che albi Urania – c’è l’opzione Neuralink, l’interfaccia cervello-computer, un chip impiantato nel cranio che libererebbe definitivamente da qualsiasi device esterno.
 
Sul Guardian nel 2019 una giornalista raccontava l’abbandono dal suo iPhone e diceva che dopo qualche settimana si sentiva “più equilibrata, meno distratta, meno ansiosa”. Aggiungeva che “al momento viviamo in un mondo in cui è ancora possibile scegliere di disconnettersi. Nel futuro potremmo non avere quel lusso”. Molti giornalisti che ogni tanto provano a fare la stessa cosa per raccontare del distacco, su Slate, su Wired o su Vice, dicono sempre che ora riescono a leggere molti più libri (forse gli editori dovrebbero investire nel settore dei dumbphone) e a rilassarsi meglio. Nel frattempo, l’uomo che a gennaio si è fatto impiantare Neuralink, Noland Arbaugh, paralizzato e costretto su una sedia a rotelle, dice che la sua vita è migliorata incredibilmente da quando può muovere il mouse col pensiero, ed è diventato bravissimo con i videogame. 

AI Act e Gdpr: come si integrano le norme sulla protezione dei dati

L’AI Act regolamenta in maniera organica lo sviluppo, l’immissione sul mercato e l’uso dei sistemi di intelligenza artificiale. La disciplina della protezione dei dati personali resta però primariamente affidata al GDPR. In questo quadro normativo, la compliance in materia di data protection nel contesto dell’intelligenza artificiale presenta molteplici e sfidanti questioni interpretative
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