La scrittura, l’arma più resistente
Il 5 settembre scorso il Consiglio di sicurezza Onu ha dato la parola a Yuli Novak esponente di B’Tselem, la storica organizzazione pacifista israeliana. Nel suo appassionato intervento ha tra l’altro dichiarato: «…Per comprendere la condotta criminale del governo israeliano negli ultimi undici mesi, bisogna capire l’obiettivo generale del regime. Sin dalla fondazione di Israele, la sua logica fondamentale è stata quella di promuovere la supremazia ebraica su tutto il territorio sotto il suo controllo. Questo è stato sancito come principio costituzionale sei anni fa. Le linee guida dell’attuale governo (Legge Fondamentale 2018) affermano che: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile a tutte le parti della Terra di Israele”».
E ha poi proseguito: «Nell’attacco criminale guidato da Hamas il 7 ottobre, sono stati uccisi 1200 israeliani e 250 sono stati presi in ostaggio. Da quel giorno, io e tutti gli israeliani che conosco viviamo in una profonda paura. Il governo sta sfruttando cinicamente il nostro trauma collettivo per portare avanti con violenza il suo progetto di consolidare il controllo israeliano su tutta la terra. Per farlo, sta conducendo una guerra contro l’intero popolo palestinese, commettendo crimini di guerra quasi quotidianamente. A Gaza – ha continuato -, questo ha assunto la forma di espulsioni, fame, uccisioni e distruzioni su una scala senza precedenti. Questo va oltre la vendetta: Israele sta sfruttando l’opportunità di promuovere un programma ideologico: rendere Gaza inabitabile… In Cisgiordania e, compresa Gerusalemme Est, il governo sfrutta le circostanze per creare cambiamenti irreversibili», con centinaia di vittime e le aggressioni dei coloni «che attaccano i palestinesi e compiono pogrom in pieno giorno, con il sostegno del governo. Cacciate finora 19 comunità dalle loro case…».
Se la situazione è questa, ora anche in Libano, se la riduzione del mondo ai rapporti di forza dice che quel che ha cittadinanza e valore non è il vivente ma quello che alla morte più si approssima, vale a dire la guerra, quale resistenza da parte dei palestinesi – perché dalla loro sicurezza dipende quella degli israeliani – si può opporre a una violenza che moltiplicherà le sue trame nella memoria e negli occhi dei bambini inconsapevoli di fronte alle rovine e ai corpi dilaniati?
Più forte di ogni violenza, di ogni arma è, anche adesso, la parola, la parola scritta e «resistente» – e non solo perché aspetto “della Resistenza” come Italo Calvino definiva la letteratura palestinese – che riannoda l’intera storia dell’oppressione che i palestinesi, il popolo dei campi profughi a casa loro, subisce da più di 70 anni. Alla quale si è opposta con rigore anche una scrittura letteraria, poco conosciuta, con straordinari protagonisti come il poeta Mahmud Darwish e lo scrittore Gassan Kanafani, ma che in questi ultimi anni, con molti nuovi giovani autori – tanti uccisi sotto le bombe a Gaza come lo scrittore Refaat Alareer e la poetessa Hiba Abu Nada – , si è rinnovata e arricchita nella forma e nei contenuti, così da assumere l’intero carico della condizione umana universale, degli ultimi, dei deboli e dello stesso nemico, trasfigurandola in nuove modalità, misura e creatività.
Conoscerla, diffonderla, viverla vuol dire testimoniare questa, forse, unica resistenza rimasta: l’amore non sradicabile per una terra che invece genera odio e distruzione – “la terra più amata” appunto, (come l’antologia della Manifestolibri). Nel dettato dei versi di Mahmud Darwish: «Abbiamo un paese che è di parole/ E tu parla, ch’io possa fondare la mia strada su pietra di pietra./ Abbiamo un paese che è di parole,/ e tu parla, così da conoscere dove abbia termine il viaggio».
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