L’IA per parlare con i morti: lo spot da milioni di clic riaccende il dibattito sull’aldilà digitale

Dalla California arriva un progetto che riaccende il dibattito sull’“aldilà digitale”: si chiama 2wai [si legge “two-way”], un nome che promette un dialogo a doppio senso tra chi resta e chi non c’è più.

La società si presenta come un social network abitato da avatar capaci di parlare e muoversi come utenti in carne e ossa. Calum Worthy, attore canadese ed ex volto Disney, è uno dei co-fondatori.

Il video che ha innescato le polemiche

Per promuovere il suo social, 2wai ha creato un video controverso in cui una donna incinta parla, attraverso lo smartphone, con l’avatar della madre defunta. La sequenza scorre nel tempo, mostrando il figlio che porta in grembo crescere, diventare adulto e interagire a sua volta con la “nonna digitale”. Secondo l’azienda, tre minuti di filmato della persona originale basterebbero a generare un avatar in grado di sostenere conversazioni naturali e credibili.

Si tratta di una trovata pubblicitaria costruita a regola d’arte: l’azienda spinge infatti su molte altre applicazioni dei suoi avatar – gemelli digitali di creator e brand, personaggi storici rianimati per fini educativi, addirittura versioni multiple dello stesso utente per gestire la propria presenza online – ma è la promessa di parlare con i morti a garantire attenzione mediatica.

L’illusione di entrare in contatto con i defunti

“E se le persone che abbiamo perduto potessero far parte del nostro futuro?”, si chiede Calum Worthy condividendo il video sui social, visto in pochi giorni da più di 40 milioni di persone.

“Noi di 2wai stiamo costruendo un archivio vivente dell’umanità, una storia alla volta”, aggiunge Worthy, rivelando poi il vero obiettivo della campagna pubblicitaria: “Tutto inizia con il social network per avatar: l’app 2wai”.

Il risultato, almeno sul fronte delle iscrizioni, appare notevole: dopo la diffusione dello spot, migliaia di utenti si sono precipitati a scaricare l’app, al punto da mandare in affanno l’infrastruttura dell’azienda. Sui social la società ha ammesso la pressione imprevista: “A causa del volume inaspettato, i tempi di elaborazione sono molto più lunghi del solito. Il tuo avatar sarà pronto entro una settimana”.

Quando la realtà supera Black Mirror

Ma non tutti hanno accolto l’iniziativa di 2wai con entusiasmo. In molti, anzi, hanno sottolineato la natura distopica dell’iniziativa, ricordando un episodio della serie tv Black Mirror, nota per trasformare le intuizioni tecnologiche più seducenti in incubi perfettamente plausibili.

L’episodio in questione è “Be Right Back”, dove una giovane donna, travolta dal lutto per la morte del compagno, ricorre a un servizio che ricostruisce la sua voce, il suo stile, i suoi ricordi a partire dalle tracce digitali lasciate online. Prima chattare, poi ascoltare, infine convivere con una replica fisica: questo percorso scivola dal conforto nell’inquietudine ed evidenzia quanto sia facile confondere il bisogno di vicinanza con l’illusione di una presenza.

Nel caso di 2wai la dinamica è meno estrema, ma l’eco narrativa è evidente: anche qui un algoritmo tenta di trasformare pochi frammenti audiovisivi in un avatar parlante, alimentando la tentazione di un rapporto postumo reso possibile dagli algoritmi.

La mercificazione del ricordo

Il lutto è un territorio delicato, e l’idea di trasformare un frammento video in un fantasma conversazionale pone domande su consenso, manipolazione affettiva, e sulla linea sottile che separa l’elaborazione del dolore dalla dipendenza da un’illusione. Non aiuta il fatto che 2wai preveda, per i suoi servizi, abbonamenti e funzioni premium: la mercificazione del ricordo non è un tema facile da digerire.

Con un solo post su X, il copywriter Alex Napier Holland smonta l’iniziativa. Immagina un messaggio che un servizio del genere potrebbe rivolgere agli utenti: “Sei sicuro di voler annullare l’abbonamento e non parlare mai più con i tuoi genitori morti?”. Un’accusa diretta alla logica commerciale di 2wai, che fa leva sul dolore per vendere un prodotto.

Eppure il caso 2wai non nasce dal nulla. È l’ultimo capitolo di una lunga saga tecnologica che prende forma ben prima dell’esplosione dell’IA generativa e dei chatbot contemporanei – da Gemini a Claude fino a ChatGPT – capaci di riprodurre il linguaggio umano con una fluidità tale da far pensare, a volte, a una sorta di coscienza. Un’illusione, naturalmente: le macchine non capiscono il significato come lo intendono gli esseri umani, elaborano associazioni statistiche e schemi. In altre parole, sono soltanto abili imitatori che riflettono, senza viverla, la trama dei nostri pensieri.

I precedenti: quando la tecnologia riporta indietro i morti

Nel 2015, ad esempio, la programmatrice Eugenia Kuyda ha ricreato un simulacro testuale del suo migliore amico, Roman Mazurenko, morto in un incidente. Ha recuperato migliaia di suoi messaggi, li ha utilizzati per addestrare un modello linguistico e ha prodotto un chatbot capace di rispondere “come” Roman.

La base delle conversazioni, anche in questo caso, era meramente statistica: eppure molti amici di Mazurenko hanno trovato conforto in quel bot, che diventato ben presto una sorta di diario interattivo della loro memoria. Da quell’esperimento è poi nata Replika, una delle app di IA conversazionale più note al mondo.

Un altro caso è emerso nel 2021, quando il San Francisco Chronicle ha raccontato la storia di Joshua Barbeau, che ha utilizzato la piattaforma Project December per ricostruire la voce testuale della fidanzata Jessica, scomparsa otto anni prima.

Barbeau ha trascorso notti intere a parlare con una copia digitale della persona che amava, costruita caricando messaggi e abitudini linguistiche. Le risposte non erano coerenti, ma spesso erano sufficienti a riportare alla luce frammenti del passato. L’articolo del Chronicle ha fatto il giro del mondo, e la parola “griefbot” – un chatbot pensato per accompagnare il lutto – è entrata nel lessico contemporaneo.

Nel 2020, invece, un documentario girato in Corea del Sud dal titolo “Meeting You” ha sorpreso il pubblico internazionale mostrando una madre che, immersa in un set ricreato attraverso la realtà virtuale, ha incontrato l’avatar tridimensionale della figlia morta anni prima. Un “contatto”, in questo caso, coreografato dai tecnici e non generato dall’IA: l’avatar della bambina ha risposto e si è mossa secondo un copione, ma l’impatto emotivo è risultato devastante.

Prima ancora c’è stata StoryFile, azienda fondata nel 2017 che ha sviluppato una tecnologia utilizzata in alcuni memoriali: centinaia di risposte registrate in vita sono state archiviate e rese disponibili in modo interattivo, così che una persona potesse “rispondere” – in video – alle domande dei presenti anche dopo la morte.

Concepite inizialmente come un modo per preservare le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah e dialogare con altre figure storiche, le videointerviste di StoryFile sono state richieste in seguito anche per i funerali.

Le conseguenze dell’IA che “resuscita” le persone

Ognuno di questi progetti ha evidenziato la nostra crescente inclinazione ad affidare alla macchina una parte delicatissima del lutto: la gestione del ricordo attraverso una figura sintetica che imita aspetto, movenze e voce dell’originale.

Tecnicamente è ormai possibile parlare con un avatar di chi non c’è più, ma la domanda che dovremmo farci riguarda ciò che comporta crearne uno. Chi controlla quel simulacro? Chi decide quando spegnerlo? E quanto è facile che venga trasformato in strumento di manipolazione, sfruttamento commerciale o persino riscrittura del passato?

Su questi interrogativi esiste già una piccola letteratura, che prova a mettere ordine in un territorio ancora senza regole. Alcuni studiosi propongono di distinguere almeno tre figure: il “donatore di dati” (la persona di cui si usano tracce e registrazioni), il “destinatario dei dati” (chi ne detiene il controllo dopo la morte: familiari, aziende, esecutori testamentari) e l’“interagente”, cioè chi parlerà effettivamente con il bot.

In questa prospettiva, il potere sul simulacro non è mai neutro: dipende dai contratti firmati in vita, dalle leggi su eredità digitale e privacy postuma e, soprattutto, da norme che devono essere chiare sul trattamento dei dati anche dopo la morte.

Più di un paper ha sottolineato che le piattaforme dovrebbero prevedere una sorta di “testamento digitale” esplicito, e persino un diritto alla “eutanasia digitale”, cioè alla cancellazione definitiva del proprio doppio artificiale, per evitare che avatar e chatbot continuino a circolare contro la volontà della persona o della sua famiglia.

Le analisi sul nascente settore della “grief tech” mettono in guardia dalla commercializzazione del lutto: le aziende che sviluppano gli avatar potrebbero revocare l’accesso al defunto digitale se qualcuno smette di pagare, oppure inserire suggerimenti d’acquisto nelle conversazioni o, peggio ancora, raccogliere nuovi dati sensibili dagli utenti più vulnerabili.

Le storie di Roman, Jessica, Nayeon e ora il caso 2wai hanno raccontato tutte la stessa pulsione: il desiderio umano di trattenere ciò che scivola via e la potenza di una tecnologia sempre più capace di imitare, ma non di restituire veramente.

Ed è in questo spazio ambiguo, tra conforto e inganno, che si gioca una delle grandi questioni etiche della nostra era digitale.

Autore del post: La Repubblica Tecnologia Fonte: https://www.repubblica.it/rss/tecnologia/rss2.0.xml Continua la lettura su: https://www.repubblica.it/tecnologia/2025/11/18/news/parlare_con_i_morti_ia_avatar_polemiche_caso_2wai-424988507/?rss


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