Il senso di Maven, il social anti vanità
La nuova piattaforma di Williams e Sam Altman elimina il “pulsante del demonio” e incentiva il dialogo. Per tentare di riesumare quello spirito tribale che aveva alimentato il web delle origini
Le maglie “antisocial social club” si vedono nelle strade statunitensi ormai quasi da un decennio. Ma è nell’era della vulnerabilità che la social fatigue, l’ansia da prestazione online, dove il valore percepito dei contenuti è spesso misurato dalla quantità di approvazioni ricevute, si è fatta intollerabile. Ecco allora che dalla Silicon Valley spuntano piattaforme come Maven, che si promuove come il “serendipity network”, che si può tradurre come “rete della scoperta casuale”, o meglio un antisocial network che rifiuta la logica dei “mi piace” e dei seguaci online.
Maven non è in realtà il primo dei social che provano a fingere di non esserlo. Altri esperimenti per colmare il vuoto del passaggio da Twitter alla X colonizzata dall’alt-right di Elon Musk comprendono Mastodon, uno dei presunti campioni del Web3, che prometteva di ridistribuire i proventi della piattaforma non più agli investitori ma direttamente ai creatori di contenuti. L’esperimento però è rimasto tale, e i numeri dei suoi utilizzatori sono marginali rispetto alle principali piattaforme tradizionali.
Maven non fa utilizzo di blockchain, ma non è nemmeno un social come gli altri. Dietro, ha uno dei cofondatori di Twitter, Ev Williams, e anche l’enfant prodige del momento, Sam Altman, che è a capo di OpenAI. La proposta di Maven si basa sul rifiuto dei meccanismi tradizionali di approvazione e popolarità, come i like e i follower, andando oltre la logica di Instagram, che ha abilitato l’opzione di non mostrare il numero di like nei propri post.
Il “pulsante del demonio” è stato introdotto per la prima volta da Facebook nel 2009, sulla base del lavoro di ricerca di un team interno capitanato da Justin Rosenstein. Nei quindici anni successivi tutto è cambiato, e molto proprio a causa di quella singola innovazione: la promessa di democrazia utopistica del Web 2.0 si è andata a spegnere progressivamente, assorbita dal capitalismo della sorveglianza, e Rosenstein stesso si è successivamente detto pentito della sua creazione. L’invenzione del tasto “mi piace” ha abilitato la creazione del mestiere che oggi chiamiamo content creator – o, in maniera più impropria, influencer – ma anche tutta una serie di disturbi particolarmente diffusi in particolare tra teenager e giovani adulti. Il “like” fa leva infatti sui meccanismi di ricompensa del cervello, che portano al rilascio di dopamina, ed è quindi una delle principali ragioni per cui sistemi come Facebook, Instagram e altri creano dipendenza in chi li utilizza. Una ricerca del 2014 aveva mostrato una correlazione tra l’uso intensivo dei social media, la ricezione di “like”, e problemi come ansia, depressione e bassa autostima. Gli utenti spesso confrontano la loro vita con quella degli altri, basandosi sul numero di “like” ricevuti, il che può portare a sentimenti di inadeguatezza.
Maven si propone di risolvere questa deriva incanalando le interazioni non più sulla base di “amicizie” o follower, ma riorganizzando gli spunti di conversazione sulla base degli argomenti, a prescindere dall’autore, facendo riemergere dai fondali del web lo spirito tribale che ne aveva animato le prime origini. In Maven gli utenti sono incoraggiati a commentare e condividere pensieri e feedback dettagliati, invece di esprimere un’approvazione superficiale con un semplice click: in questo modo, la piattaforma incentiverebbe forme di interazione più profonde e articolate. L’algoritmo si basa su un motore di intelligenza artificiale che serve gli utenti non più su base uno ad uno, come nel tradizionale rapporto influencer-follower, ma in relazione alla community di utenti che si aggregano intorno a un certo interesse. Questa tendenza c’è sempre di più anche in ambito musicale, per esempio, dove gli utenti giovani e molto giovani si fidelizzano meno sulla star musicale, favorendo artisti anonimi o sconosciuti, ma che possono arrivare a decine di miliardi di ascolti, come nel caso dell’artista Johan Roehr.
Nella logica di Williams e Altman, se davvero dovessero arrivare al successo, Maven e i suoi potenziali competitor come Vsco potrebbero innescare una transizione verso un uso dei social media più consapevole e meno dipendente dalle cosiddette “vanity metrics”, con impatti al momento difficilmente calcolabili nell’economia digitale, che ormai facciamo sempre più fatica a distinguere da quella Irl (in real life).
Il fenomeno rimarrà circoscritto alla Bay Area? Improbabile. Come dovremmo aver imparato negli ultimi anni, quel che succede nella Silicon Valley raramente rimane soltanto qui. Nel bene, nel male, e perfino nell’eticamente discutibile.
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