Google vuole Wiz, la start up della cybersicurezza, per 23 miliardi di dollari

La compagnia è stata fondata da informatici israeliani durante la pandemia, quando tutto il mondo si è trasferito online. Se l’indiscrezione anticipata dal Wall Street Journal fosse confermata, sarebbe l’affare dell’anno

Prima o poi doveva succedere. L’alleanza strategica tra i capitali della Silicon Valley e dei “nerd” informatici israeliani ha prodotto l’affare dell’anno: l’acquisizione da parte di Alphabet, la società madre di Google, della Wiz, la start up della cybersicurezza fondata nel 2020 da Assaf Rappaport, Ami Luttwak, Yinon Costica and Roy Reznik. Si tratta dello stesso gruppo di ingegneri e tecnici diventato famoso per aver venduto nel 2015 la loro prima start up, Adallom, a Microsoft per 320 milioni di dollari e che dopo qualche anno si è ritrovato per dar vita a una nuova impresa, Wiz, concepita durante la pandemia quando tutto il mondo si è trasferito online e sui sistemi di server cloud.

Questa volta, però, si sta parlando di una cifra ben più grande perché se l’indiscrezione anticipata dal Wall Street Journal fosse confermata (le trattative tra le parti sono ancora in corso) Google sarebbe disposta a pagare Wiz – che ha sede a New York e ha già in corso rapporti di collaborazione con il colosso californiano – ben 23 miliardi di dollari, dopo che l’ultima stima ufficiale che risale al mese di maggio valorizzava la società 12 miliardi. Ma, evidentemente, i prezzi corrono in fretta nel settore della cloud security, in una fase in cui gli attacchi informatici sono in aumento e sempre più sofisticati.

Al di là di come andrà a finire, la transazione “monstre” dimostra che il settore della cybersecurity è capace di attirare investimenti enormi e di scatenare una nuova competizione a livello globale, come spiega al Foglio Gabriele Faggioli, responsabile scientifico dell’Osservatorio Cybersecurity & Data protection del Polimi. “Quest’operazione ci dice è che gli Stati Uniti sono all’avanguardia grazie anche ai buoni rapporti con Israele e che l’Italia rischia di restare molto indietro nonostante i fondi stanziati dal Pnrr”. Secondo Faggioli, la tendenza di aziende e pubbliche amministrazioni a trasferire i propri data base su cloud è irreversibile e questo pone un tema di sicurezza per provider come Google. Per contro, il fatto che quest’ultimo sia disponibile a spendere una somma così massiccia per portare a casa Wiz vuol dire che prevede una crescita fortissima della domanda per i suoi servizi. In ballo, insomma, c’è la sicurezza nazionale ma anche un grande business e i fatti dimostrano che la forza di un paese in questo campo è legata alla sua capacità di mobilitare risorse pubbliche e private e di far crescere la ricerca e le iniziative imprenditoriali. “Di recente – prosegue Faggioli – abbiamo censito 167 start up del mondo cyber e in 132 casi siamo riusciti a risalire ai finanziamenti che le sostengono, stiamo parlando di una media di 19 milioni a società. Ebbene, in Italia ne abbiamo contate sette con una media di 1,5 milioni a testa, troppo poco per potersi sviluppare in un campo così competitivo”.

Eppure, proprio secondo i dati del Polimi, in Italia la cybersecurity è diventata la principale priorità d’investimento nel digitale delle imprese, sia grandi che piccole, dopo che gli attacchi degli hacker hanno subito un’impennata tra il 2022 e il 2023. Di conseguenza, il giro d’affari del settore è aumentato del 16 per cento superando i 2 miliardi. “Si sta parlando, comunque di cifre molto contenute rispetto alla media degli altri paesi – prosegue l’esperto – la spesa in cybersecurity  in Italia si attesa infatti allo 0,12 per cento del pil, in crescita rispetto al 2022 (0,10 per cento) ma resta una percentuale che colloca l’Italia all’ultimo posto nel G7, a grande distanza dai primi in classifica, Stati Uniti (0,34 per cento) e Regno Unito (0,29 per cento) e di Francia e Germania che si attestano intorno allo 0,19 per cento”.  

Quello che ha funzionato negli Stati Uniti è un approccio basato su una stretta collaborazione tra enti governativi e settore privato oltre che la promozione di collaborazioni internazionali, a differenza della Cina, dove il controllo statale su questo settore è totale e l’apertura all’esterno è limitata a paesi che si allineano al suo principio di sovranità informatica. L’Unione europea, dal canto suo, promuove un concetto di cyberspazio libero e sicuro, basato su valori democratici e sui diritti umani e cerca di incoraggiare una maggiore cooperazione tra stati membri. Ma è un processo lento e per quanto riguarda l’Italia,  osserva Faggioli, “per ridurre il gap con gli altri paesi sarebbe necessario anche un corretto bilanciamento tra investimenti tecnologici e capitale umano, insistendo sulla formazione e sensibilizzazione dei lavoratori”.

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